La nascita del paesaggio
Paesaggio e natura non sono sinonimi. Il ruolo (e le responsabilità) dell’uomo
Gran parte delle religioni primitive, probabilmente tutte, rivelano un sentimento profondo per la natura. A prescindere dalla loro posizione geografica, tutti i popoli sono dotati di un’ampia collezione di storie e leggende che lega l’origine del mondo – o il sostentamento della popolazione – a miti più o meno elaborati. Si pensi a Cerere, divinità latina dell’agricoltura (conosciuta come Demetra nell’antica Grecia): sua figlia Proserpina (Persefone per i greci), sequestrata sotto terra dal dio dei morti, era restituita alle braccia materne solo per parte dell’anno e, per questo, simboleggiava il ciclo della vegetazione.
La natura era osservata, temuta e, certamente, contemplata con meraviglia e stupore; in altri termini, l’uomo ha sempre teso a riflettere circa la natura e, in ultimo, circa la propria collocazione all’interno dell’universo naturale. Tuttavia, già all’epoca il concetto di natura era ben distante da quello di paesaggio: quest’ultimo richiama valenze di carattere estetico e non si limita, per esempio, alla contemplazione delle “forze” della natura ovvero delle forme monumentali che questa sovente assume.
La caratteristica principale del paesaggio risiede quindi nel fatto che un frammento di natura limitato è catalogato come unità e definito attraverso confini. Se si delimita ai propri occhi una parte della natura con il suo infinito simbolico si ottiene la concretizzazione del paesaggio come separazione tra uomo e natura. Non è un caso se molti studiosi affermano che la nascita del concetto di paesaggio sia coincisa con l’affermazione della pittura di paesaggio che, a partire dal sedicesimo secolo, si diffuse in tutta Europa sino ad assumere i caratteri dirompenti della pittura en plein air che diede origine alla tanto vituperata (allora) quanto apprezzata (ora) corrente impressionista. Quest’ultima, per inciso, ebbe il merito di contrastare l’idea del paesaggio quale cristallizzazione di se stesso: a seconda delle ore del giorno e delle condizioni atmosferiche l’occhio riceve stimoli diversi che il cervello trasforma in immagini ed emozioni differenti sebbene derivate dai medesimi elementi materici.
Pertanto, la storia del paesaggio procede con il processo per il quale alcune determinate zone della terra sono “scoperte”, identificate e rese visibili dal punto di vista estetico in modo del tutto simile a quanto avviene nella storia dell’arte. Catalogazioni che permettono di comprendere meglio le caratteristiche di un certo territorio. Come i cosiddetti impressionisti non erano definiti in quel modo prima che i critici li “etichettassero”, così il paesaggio non è riconosciuto appieno prima che qualcuno sia in grado di delimitarlo: ecco nascere i paesaggi delle Langhe, del Carso, del Vulture. Paesaggi che di norma hanno connotazioni prevalentemente rurali in quanto gli aspetti più “costruiti” sono spesso relegati al ruolo di intrusi. È paradossale, tuttavia, il fatto che coloro che vivono in contesti poco contaminati – per esempio gli abitanti dei villaggi rurali di molti Paesi meno sviluppati – non sappiano apprezzare appieno il paesaggio che li circonda: si arriva all’assurdo dell’agricoltore che conosce perfettamente la campagna che lavora ma non è in grado di comprenderne il valore paesaggistico quasi che il piacere della contemplazione fosse negato laddove prevalgono il bisogno o il profitto.
Talvolta, la conservazione/percezione di un paesaggio è legata alla valorizzazione di un prodotto: si pensi alla viticoltura di montagna della Valtellina, delle Cinque Terre o della Val d’Aosta oppure a certe produzioni lattiero-casearie tipiche di zone marginali. In questi casi, l’apprezzamento del paesaggio corre di pari passo con il mantenimento del prodotto dell’attività dell’uomo (e viceversa). Da qui segue l’importanza di comunicare il paesaggio, riconoscerlo, valorizzarlo anche grazie alle attività antropiche tradizionali che, quindi, non sempre sono negative; al contrario il più delle volte i paesaggi “incontaminati” nascondono la “mano invisibile” dell’uomo. Agli elementi naturali si affiancano e si sovrappongono i materiali di origine antropica che, al di là delle (inevitabili?) brutture, celano anche aspetti positivi: la libera azione creatrice degli uomini rende ogni paesaggio il prodotto di un’arte, di un agire volto a mutare la natura verso l’utile e il bello.
Caratteristico del paesaggio è dunque il fatto che un frammento di natura individualmente limitato è considerato come unità e definito attraverso confini. Non si tratta solamente di estetica: la componente etica non è indifferente poiché il paesaggio è intimamente connesso all’azione dell’uomo, al progetto dell’individuo all’interno dell’ambiente e della società. D’altra parte, quest’ultima si identifica con il dominio sulla natura ossia quella premessa di libertà il cui contenuto estetico è il paesaggio. Non si deve in ogni caso negare la libertà derivata dall’avere superato la fase in cui l’uomo era sottomesso alla potenza della natura, né rifugiarsi nel sentimentalismo o nel passato originario. Tuttavia, è importante che l’uomo, schiavo affrancato della natura, ne diventi suo legislatore consapevole al fine di tutelare se stesso e il suo prodotto, il paesaggio.
Ogni paesaggio, quindi, ha in sé peculiarità che esprimono il patrimonio socio-culturale di una popolazione. Per questo motivo ogni luogo appartiene ai propri cittadini i quali non dovrebbero subirne le trasformazioni senza parteciparvi. Le politiche paesaggistiche – riguardino la pianificazione di lungo periodo o i singoli progetti – non possono ignorare questi concetti e devono leggere e rispettare le singole peculiarità, in equilibrio tra la mera conservazione dell’esistente e la volontà di apportare modifiche, anche sostanziali, al paesaggio al fine di dare sfogo alle esigenze di rinnovamento provenienti non solo dai singoli progettisti ma anche dalla società tutta. Non solo protezione quindi, ma gestione e pianificazione del territorio e delle sue evoluzioni.
L’idealizzazione nostalgica del passato è l’anticamera del conservatorismo più bieco e deve pertanto essere evitata. Al contrario, il recupero estetico e la rappresentazione della natura in quanto paesaggio hanno una funzione positiva fondamentale dal momento che mantengono aperto il legame dell’uomo con la natura e permettono al primo di esprimersi e alla seconda di fornire spunti e continui elementi di riflessione. In quest’ottica, la valorizzazione della natura non può essere vista alla stregua di un’operazione reazionaria o conservatrice, bensì quale strumento di rinnovamento culturale. Purché non si ricalchi la stessa strada percorsa dalla storia dell’arte lungo la quale, a un certo punto, il paesaggio fu dimenticato e l’attenzione fu rivolta esclusivamente al linguaggio. Di paesaggio è bene parlare sempre per tenere alta l’attenzione su quello che, probabilmente, è il principale bene non rinnovabile di cui disponiamo.
Articolo pubblicato originariamente sul periodico della Fondazione Senza Frontiere Onlus.