Le avversità delle piante modificano il paesaggio.
E l’uomo?
1845. Un anno che ha scritto un pezzo di storia irlandese. In quell’anno ebbe inizio una carestia le cui proporzioni non furono mai più eguagliate: nella storia dell’umanità non vi fu altro evento capace di uccidere una percentuale di popolazione tanto elevata. Gli irlandesi la ricordano come An Gorta Mòr – la Grande carestia – per sottolinearne la dimensione tragica, come fosse una guerra, la Grande guerra, appunto. Ma quale fu la causa scatenante di tutto questo? Un fungo, microscopico, ma capace di ridurre le patate – principale fonte di sostentamento per gli irlandesi del tempo – in una poltiglia immangiabile. La Phytophthora infestans, questo il nome del fungo, se la prese però comoda. Fece un viaggio in prima classe a bordo di una nave proveniente dal nord America e, a partire dalle zone sud-occidentali dell’isola, si diffuse rapidamente nel resto del Paese e affamò la popolazione sino al 1849. Fu quindi lo sviluppo dei commerci che seguì l’introduzione delle navi a vapore a diffondere rapidamente la malattia da una costa all’altra dell’Atlantico: sino ad allora i velieri – a causa dei lunghi tempi di navigazione e delle alte temperature delle stive – non avevano consentito il diffondersi del patogeno.
Oggi, grazie all’internazionalizzazione degli scambi di derrate alimentari, esiti repentini come quello irlandese non sarebbero più possibili. Persiste tuttavia un allarme riguardo l’importazione involontaria di organismi nocivi alle piante, tanto che negli scambi internazionali i vegetali devono essere muniti di un passaporto che ne garantisce la sicurezza fitosanitaria.
Un altro esempio degli effetti dell’improvvisa introduzione di un organismo all’interno di un ecosistema è rappresentato dal cancro colorato del platano, una malattia che porta alla morte anche gli alberi esemplari. Si diffuse a partire dall’immediato secondo dopoguerra. Il perché è presto spiegato: le casse delle munizioni dei militari americani, durante la seconda guerra mondiale, erano di legno di platano. È probabile che in qualcuna di queste casse fossero annidate le spore del fungo ascomicete Ceratocystis fimbriata, responsabile della malattia. Dopo lo sbarco alleato la malattia si diffuse in tutta Italia provocando i primi danni lungo i viali di platani della reggia di Caserta. Grazie a decenni di ricerche di laboratorio e di sperimentazione agronomica è stata fortunatamente individuata una varietà resistente conosciuta con il nome commerciale di Platanor® ‘Vallis Clausa’. Nonostante ciò, purtroppo, i platani secolari tuttora esistenti sono sottoposti a una continua minaccia potenzialmente capace di stravolgere il paesaggio di molti parchi storici. Tale evenienza è facilitata anche dalla scarsa professionalità di molti operatori del verde: grandi tagli di potatura e mancanza di disinfezione degli attrezzi da taglio favoriscono la diffusione delle fitopatie e aprono la strada ai patogeni secondari che, in condizioni normali, non sarebbero in grado di aggredire le piante sane.
Cambiamo paesaggio: Toscana. Colline, vigneti, strade sinuose costeggiate da cipressi…malati e deperenti. Questo era lo scenario che si prospettava circa 60 anni or sono quando dal nord America giunse Seiridium cardinale, fungo agente del cancro del cipresso. In questo caso, i grandi sforzi svolti dalla ricerca varietale hanno reso possibile l’introduzione di cultivar resistenti al patogeno, quali la ‘Bolgheri’, molto adatta all’impiego ornamentale grazie al caratteristico portamento colonnare stretto.
I tempi sono cambiati e i patogeni si sono adeguati: non sbarcano più da navi sbuffanti vapore, ma si lasciano trasportare da moderni aerei a reazione lungo le rotte intercontinentali. Molto più comodo, molto più veloce: nel 2000 al tarlo asiatico (Anoplophora chinensis) sono bastate poche ore per atterrare a Milano Malpensa al seguito – ma è solo una delle ipotesi – di un carico di bonsai proveniente dall’estremo oriente. Da allora il tarlo, conosciuto anche con il nome di cerambicide dalle lunghe antenne a causa del suo aspetto particolare, si è diffuso in Lombardia costringendo i Servizi fitosanitari ad adottare misure di contenimento estreme: taglio delle piante infestate e delle adiacenti piante sensibili all’insetto e divieto assoluto di messa a dimora di alcune delle specie vegetali tipiche della Pianura padana. In poco più di dieci anni, il tarlo si è “mangiato” un pezzetto di paesaggio, non solo per i danni diretti (ovvero per le piante devastate dalle lunghe gallerie) ma anche per l’impossibilità di messa a dimora delle piante ospitanti, che sono tutte autoctone o storicizzate e costituiscono l’ossatura della struttura vegetale del paesaggio del nord Italia. Per citarne solo alcune: aceri, carpini, biancospini, ippocastani, faggi, platani e pioppi. Una rivoluzione paesaggistica che sta già trasformando il paesaggio della Lombardia occidentale con l’introduzione di specie non attaccate dall’insetto – per il momento – come liriodendri (Liriodendron tulipifera) e storaci (Liquidambar styraciflua). Alberi dalle pregevoli caratteristiche ornamentali, già usati in passato in parchi e giardini, ma che ora rischiano di rappresentare una scelta obbligata per le alberature d’alto fusto con il risultato di stravolgere il paesaggio tradizionale.
Al centro e al sud Italia la situazione non è molto diversa: il coleottero curculionide conosciuto come punteruolo rosso (Rhynchophorus ferrugineus) sta – letteralmente – divorando le palme di Sicilia, Campania, Lazio e Puglia, ma anche di altre regioni costiere, compromettendo il paesaggio marittimo e il lungomare di numerose rinomate località di villeggiatura. Certo, in questo caso non si tratta di vegetazione indigena, ma è pur sempre un paesaggio fortemente storicizzato che connota il Meridione e il Centro Italia anche dal punto di vista dell’immagine turistica.
Ma l’uomo è solo spettatore passivo nell’alterazione del paesaggio? La risposta richiede di ampliare l’analisi e di considerare nuovi elementi. La diffusione improvvisa e incontrollata di patologie o di popolazioni di insetti nocivi vede l’uomo protagonista, non semplice spettatore di eventi ineluttabili. Occorre infatti considerare che in un ecosistema “sano” la componente vegetale e quella patogena vivono in una sorta di equilibrio dinamico: grazie alla presenza di antagonisti naturali non si verificano (quasi) mai casi epidemici come quelli sopra ricordati. L’uomo incide profondamente sulla stabilità di ogni ecosistema modificandone l’equilibrio e generando un ambiente ostile alla crescita vegetale. In questo modo, non appena un nuovo patogeno – magari inconsapevolmente trasportato dall’uomo – compare in un ecosistema incontra piante male gestite dall’uomo e perciò debilitate, incapaci di affrontare la nuova malattia o il nuovo parassita.
C’è di più: oltre a questi danni indiretti, l’uomo agisce come attore, capace di modificare direttamente il paesaggio. È sufficiente guardarsi attorno: il paesaggio tradizionale è spesso modificato attraverso l’introduzione di specie estranee all’ambiente che le ospita, prive di qualunque legame con il territorio. Basti pensare a molti sempreverdi – i grandi cedri, ad esempio – che vengono messi a dimora ancora oggi per avere il “verde” tutto l’anno. Oppure i “muri” di lauroceraso o di Cupressocyparis leylandii che schermano i giardini privati dal fronte strada a tutela di chissà quali segreti.
Il paesaggio indietreggia, consumato da avversità e scarsa cultura del giardino e del paesaggio. Ciò che non mangiano i fitofagi, lo divora l’uomo. Forse, è ora di cambiare menù.
L’articolo originale (Fabbri M. e Masotto L.) può essere consultato sul sito della Fondazione Senza Frontiere onlus www.senzafrontiere.com